Aboliamo lo «storico».

di Francesco Piccolo

Sul ring di Kinshasa
L’incontro tra Muhammad Ali e George Foreman, disputato a Kinshasa il 30 ottobre 1974, è senza dubbio una pietra miliare nella storia del pugilato. Foreman (1949), campione in carica dei pesi massimi e grande favorito, venne sconfitto dal più anziano Ali (1942) per knock out all’ottava ripresa
Il medievista
Il francese Jacques Le Goff (1924-2014) è noto per aver studiato le mentalità, i costumi e i sentimenti in opere come Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale (traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, 1983). È appena uscito da Laterza il Dialogo sulla storia di Le Goff e Jean-Pierre Vernant, un volume a cura di Emmanuel Laurentin (traduzione di Michele Sampaolo, pagine 96, e 14)

Quando ero ragazzino, c’erano questi incontri di boxe notturni con Muhammad Ali o Foreman o Carlos Monzón e poi anche Roberto Durán, che chiamavano Mano di pietra. Bisognava vederli perché i giornali mettevano pressione, anche una certa ansia, nel dire che quella notte c’era l’incontro del secolo. Di solito a Las Vegas, ma poi anche in altri angoli della terra, abbastanza lontani da essere trasmessi a orari impossibili. A me la boxe non faceva impazzire, però pensavo: mi posso mai sottrarre all’incontro del secolo? Così mettevo la sveglia alle tre di notte e insieme a mio padre guardavo questi round con l’aria assorta di chi sta assistendo a un evento storico. Speravo che Mano di pietra la usasse presto, così ce ne andavamo a dormire ed eravamo a posto con la coscienza.
Però poi qualche mese dopo c’era un altro incontro di boxe, e dicevano: questo è l’incontro del secolo. Poi c’era un altro incontro del secolo, e poi un altro ancora. Quindi andavo da mio padre e chiedevo: ma quanto durano i secoli? E quanti ne sono passati da quando sono nato?
Certo, c’era la possibilità che ogni incontro successivo superasse davvero il precedente per importanza. Però poi, a vederla da qui, ora, se c’è stato un incontro che è passato alla storia è quello di Kinshasa tra Foreman e Ali. Su quello hanno scritto libri, film. E tutti gli altri incontri del secolo, che fine hanno fatto?

Poi, crescendo, le cose ero sicuro che sarebbero migliorate, e invece sono decisamente peggiorate. Ogni nuovo grattacielo viene annunciato come il più alto del mondo, perché è fatto per superare quello precedente; tutti i centri commerciali sono i più grandi d’Italia, e ogni nuovo Ikea è il più grande d’Europa. Sempre. Si ha l’impressione che li facciano solo poco poco più grandi, per superarli di una decina di centimetri la volta successiva.
E lì dove non c’è una misurazione in altezza o in metri quadrati, è arrivata in soccorso la Storia. Gli eventi del secolo sono stati per sempre sostituiti, forse sorpassati, dai momenti storici . Vuol dire che il tempo coinvolto è aumentato (storico potrebbe riguardare anche i millenni) oppure reso confuso (può darsi che si riferisca a un tempo più ristretto, non si sa, non si capisce). I momenti storici hanno cominciato a moltiplicarsi, a spuntare fuori da ogni angolo, in ogni ramo delle umane esperienze. A un certo punto, siamo stati circondati e anche un po’ asfissiati dai momenti storici, e il fenomeno continua a espandersi.

La Storia, però, è un contenitore gigantesco ma non senza limiti, non ci si può mettere veramente tutto — come stiamo facendo. Con il passare degli anni, il titolo di «storico» è stato usato in modo sempre più disinvolto, fino a diventare un abuso. Anche questo è un fenomeno strano: una parola abusata non diventa un freno; non si dice mai: se ne abusa quindi basta; ma al contrario l’abuso opera come un abbassamento del senso, una sdrammatizzazione; è come un insetticida che scaccia il senso profondo, e neutralizza per sempre il significato al quale si dovrebbe ritornare. Più usiamo la parola «storico», più ci sentiamo autorizzati a usarla. Del resto, se la prima vittoria del Carpi in serie A è storica, perché non dovrebbe aspirare a essere storico anche il mio primo tuffo da uno scoglio di Favignana? Se aumentano gli eventi che passano alla Storia, le maglie si allargano, e la Storia viene costretta, torturata, seviziata: deve prendere tutto, le piaccia o no.
Chissà perché si ha tutta questa fretta nel definire storico un fatto — fretta evidentemente contraria alla sedimentazione che i fatti devono avere per entrare, dopo tanto tempo, nella Storia. Non dovremmo essere noi che li stiamo guardando o vivendo a sancirne la durata, ma quelli che vengono molto tempo dopo di noi. E invece ci precipitiamo a definirli tali, come se avessimo paura che poi tra qualche decennio se li dimenticheranno (e se succederà, i momenti storici non sono più storici, è semplice). Allora anticipiamo, proponiamo noi la grandezza e la durata. Alle volte lo facciamo con intenzioni buone, più che buone, come è accaduto ogni volta per strette di mano tra rappresentanti israeliani e palestinesi, con in mezzo un mediatore sorridente: erano un inizio di dialogo, o forse anche meno, ma noi le spingevamo a forza nella Storia perché speravamo di condizionarla per davvero. E anche tutti quei momenti storici sono finiti con un nulla di fatto. Come quasi tutte le nostre buone intenzioni.
Ma se si tratta di eventi epocali, o apocalissi, o devastazioni, la misura della Storia è possibile. Rispettabile. Non c’è da opporre resistenza. Non si tratta di questo. L’abuso invece riguarda tutto il resto, e la parola «storico» è diventata di uso comune, la si lancia in campo così, senza pudore. Alle volte mi chiedo come facciamo a non essere un po’ sospettosi quando ci rendiamo conto che una volta i momenti storici papabili erano tre in un anno, mentre adesso quelli assolutamente certi sono cinquanta in una settimana. Così come i libri e i film sono i migliori degli ultimi dieci o venti anni, come strilla la pubblicità. Anche le mostre sono tutte quella del secolo, e perciò imperdibili. Perfino, fateci caso, se un film esce in una sola sala, sul giornale la pubblicità urla: «in esclusiva» — come se tutte le sale italiane se lo stessero contendendo e il distributore decide insensatamente di assegnarlo a una sola, tra l’altro minuscola e in periferia.
Perché a un certo punto l’assuefazione porta o a credere che ogni opera sia quella che passerà alla Storia, e questo è stressante; oppure non si crede più a niente, ed è deprimente. Non si può chiedere più di stare nel punto opposto, come per esempio Elio Vittorini quando scrisse la quarta di copertina de Il mare non bagna Napoli della Ortese, con la frase celebre: «Malgrado il verismo un po’ facile di alcune sue pagine». Però una sorta di cautela sulla grandezza futura — non presente! — di qualsiasi accadimento contemporaneo, sarebbe così elegante. Ma non c’è niente da fare, è storico tutto: il primo supermercato aperto di notte, il primo neonato dell’anno, il concerto nello stadio, la partita di Champions League, la scomparsa della permanente, l’inaugurazione della metropolitana, il record di ascolti in tv, il videocitofono, la torta caprese realizzata in Islanda, la prima intervista al nuovo presidente, il sentiero di montagna, il discorso di un ministro dell’agricoltura, un incontro tra il sindacalista di turno e il presidente di Confindustria di turno. È storica la sentenza, la prestazione, l’autorete, la nuova disposizione urbanistica, la ristrutturazione di un edificio — e potete aggiungere quanti fatti volete, ogni giorno.

All’improvviso abbiamo la percezione concreta che, al contrario di altre epoche, o dei nostri simili di alcuni anni fa, noi siamo piantati al centro della Storia dell’umanità. Da qualsiasi parte ci voltiamo, qualsiasi oggetto abbiamo per le mani, qualsiasi discorso sentiamo pronunciare — tutto è pronto per entrare nella Storia come nel microonde. A sera, quando andiamo a letto, pensiamo: che giornata storica, piena di eventi che i posteri mi invidieranno.
La Storia, senza pudore, è entrata anche nella vita privata. Chissà se è colpa di certi francesi; quando abbiamo letto le vite private nel Medioevo di Jacques Le Goff, abbiamo subito pensato: prepariamo anche la nostra vita quotidiana per un Le Goff del futuro che ci studierà. Quindi, quella che Carlo Emilio Gadda chiamava la primavoltità , e cioè quella serie di eventi che nella vita di un singolo individuo accadono una sola volta con il sapore dell’inedito — il primo giorno delle elementari, il primo bacio, il primo canestro, il primo incidente in motorino, il primo tradimento — ecco, tutto questo, nel clima di rappresentazione storica che ci circonda, abbiamo cominciato a viverlo come un fatto epocale, da tramandare ai posteri. Scriviamo sui social con enfasi, e ci hanno detto che le nostre pagine sono incancellabili, rimarranno per sempre. E non fa niente allora, se tutte queste primevoltità capitano a ognuno, senza distinzione di epoche, latitudini ed età. Non ce ne importa: se la comunichiamo immediatamente al mondo, in qualche modo stiamo contribuendo alla Storia, o quantomeno alla microstoria (se proprio si conserva un po’ di umiltà). Così, la frase che molti di noi hanno scritto sul diario da ragazzini, con sei sottolineature e otto punti esclamativi: «Stasera V. mi ha guardato», poiché rimarrà per sempre, farà passare alla Storia me e V.
Anzi solo me: ho scritto V. apposta. Per passare alla Storia solo io.

4 Replies to “Aboliamo lo «storico».”

  1. Piccolo non fa la distinzione (e sbaglia, perché svilisce tutto il discorso) tra chi ha un interesse nel far supporre al lettore la storicità di qualcosa (marketing, appunto) e chi dovrebbe fare da mediatore tra questi soggetti e il pubblico (giornalisti, “intellettuali” di varia forma e genere).
    I primi lo fanno per interesse (e per questo sono più giustificabili), i secondi per pigrizia e sciatteria.

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